La giornata internazionale delle persone con disabilità ci rimanda a una tematica particolarmente rilevante: il rapporto tra eguaglianza giuridica e l’eguaglianza sostanziale, di fatto.
È chiaro che l’eguaglianza giuridica sia un traguardo rilevante ed un segno di progresso: la presenza di leggi a sancire l’eguaglianza formale tra individui con caratteristiche diverse, includendo coloro che hanno patologie o disabilità, è un successo e sicuramente un miglioramento della vita di tali individui rispetto alla condizione in cui tale riconoscimento giuridico non si verifica.
Tuttavia, l’eguaglianza piena non può prescindere da una di tipo sostanziale, ovvero da un’eguaglianza di opportunità. Le persone con disabilità richiedono aiuto e sostegno in un lungo periodo, per poter acquisire autonomia nella loro vita quotidiana. Necessitano di progetti e supporto costante per lo sviluppo delle loro capacità cognitive e lavorative, e pertanto di adeguate politiche sociali che possano non soltanto garantire una vita sana e un contenimento delle difficoltà, anche per mezzo di sostegno fisico, ma anche la possibilità di emanciparsi e rendersi autonomi, tramite opportunità di vita, di studio e di lavoro appaganti; andando nella fattispecie, ciò comporterebbe investimenti in corsi di formazione, politiche di assistenza sociale e sanitaria, e in generale rimozione degli ostacoli che inevitabilmente generano disparità, e in certe circostanze, anche discriminazione.
Invece, la situazione in Italia – complici i numerosi tagli alla spesa pubblica e quindi a quella sociale – versa in una situazione tutt’altro che rosea. Spesso le persone più fragili, sin dall’età infantile, sono quasi completamente affidate alla cura dei genitori, che dunque vengono lasciati soli e senza le dovute capacità e gli aiuti per affrontare tali difficoltà. Questa idea discende dal pregiudizio culturale per cui sia la famiglia a doversi occupare della prole, e non lo Stato.
Il personale sanitario poi diventa sempre più insufficiente e meno specializzato a sostenere nel tempo queste persone, che necessiterebbero di progetti di crescita e di emancipazione più strutturati e continui, e non soltanto di interventi ad hoc, o almeno una presenza maggiore e più consistente.
Similmente vale nel mondo del lavoro, dove le persone con disabilità faticano ancora oggi ad integrarsi e, di fatto, non godono delle medesime possibilità di reddito e lavorative di coloro che non sperimentano gli stessi problemi. Infatti, tendono ad avere meno opportunità occupazionali, ad avere più frequentemente contratti flessibili a tempo determinato e a guadagnare di meno rispetto agli altri lavoratori (più precisamente, il reddito medio delle persone con disabilità è inferiore del 7.8% rispetto alle altre). All’interno dell’UE, Il 68 per cento della popolazione di età pari o superiore a 16 anni con una limitazione delle attività sarebbe stata a rischio di povertà se non avesse beneficiato di strumenti di welfare (specialmente in termini di prestazioni sociali, indennità e pensioni).
Tutto questo contribuisce a un’idea distorta della disabilità, che viene percepita come un mero “costo sulle casse dello Stato, una vera e propria zavorra”. Niente di più sbagliato e profondamente discriminatorio. Queste persone possono sviluppare talenti e capacità straordinarie; della loro emancipazione e del loro inserimento vero e proprio nella dimensione sociale ne giova l’intera comunità, oltreché loro stessi in primis. Un Paese che garantisce sostegno a queste persone, che permette loro una formazione continua e specializzata e significative opportunità di accesso al lavoro e allo studio è un Paese in definitiva sano.
Nell’ambito dell’istruzione – sempre nell’ottica del contenimento delle spese – le politiche inclusive sul tema disabilità sono in significativa sofferenza. In Italia, nel 2023 solo l’11% delle persone con disabilità arriva all’istruzione terziaria; la media europea è nettamente più alta, all’incirca al 29.5%. Secondo l’European Disability Expertise, uno dei primi ostacoli all’inclusione verso la disabilità in Italia nelle scuole sono proprio le strutture architettoniche degli edifici, poco agibili per coloro che hanno severi impedimenti fisici. Ad esempio, solo il 16% degli edifici scolastici in Italia dispone di segnalazioni visive per gli studenti affetti da sordità o ipoacusia. Le persone con disabilità sperimentano, inoltre, un tasso di abbandono scolastico decisamente più alto delle altre persone: il 31,5% contro il il 12.3%. In questo senso sono necessarie significative riforme, a partire dall’ammodernamento degli edifici in senso aperto e inclusivo, la predisposizione di strumenti volti a contenere l’abbandono scolastico di questi soggetti fragili – tramite corsi di formazione, anche per il lavoro, con un occhio attento e specializzato verso le esigenze di questi individui – e soprattutto l’introduzione di significative opportunità di crescita intellettuale, per non rendere lo studio – anche quello a livello universitario – un semplice miraggio o una mera promessa. Affidare le persone con disabilità alla tutela esclusiva dei propri genitori è una prospettiva davvero problematica; le famiglie necessitano di assistenza, sostegno e vicinanza, nonché strumenti adeguati, da parte dello Stato, che a sua volta deve rendersi “caregiver” per queste persone.
L’Università degli Studi di Milano, in questa prospettiva, prevede dal 2019 la figura del delegato del Rettore alla disabilità e DSA, con specifici referenti anche nei singoli dipartimenti. Inoltre è presente un ufficio di riferimento e sostegno per gli studenti con disabilità e DSA. Tali ruoli esprimono un intento di tutela e considerazione verso una comunità vasta e di notevole importanza nella nostra società, ma è soltanto una piccola parte di un mosaico decisamente più esteso, che deve avere come obiettivo una vera inclusione sociale, economica, lavorativa e culturale, a partire dai primissimi livelli di istruzione.